Autoritratti nella mia terra
Da ragazzini ci davamo appuntamento ai ‘pozzoni’, ai mulini, al promontorio, al ponte romano, al poggio. Fiumi, laghi e campi erano i luoghi d’incontro di noi giovani nati in Appennino. Qui si sta bene, soprattutto in estate, quando la natura diventa ospitale. Ma non ho ancora capito cos’abbiano di tanto speciale questi posti che ti si incollano addosso e non ti lasciano più.
La bellezza dell’Appennino non è una bellezza prorompente, di quelle che ti mozzano il fiato; è più un fascino discreto, silenzioso, sottotono. Che però, se sai guardare, ti rapisce i sensi.
Si respira una strana nostalgia quassù, come una lontananza di qualcosa che c’è stato una volta o che deve ancora accadere. Saranno i muri antichi delle case che trasudano storia, o i castagni secolari messi lì a testimoniare lo scorrere del tempo; saranno i bramiti dei cervi che a settembre ti ricordano che tutto torna, o la nebbia soffice ma impenetrabile del mattino che t’imprigiona in un teatro di sogno.
Ma chi non ha desiderato almeno una volta scappare da qui? Qualcuno l’ha fatto, ma spesso ritorna. Perché l’Appennino è parte di te, come i boschi, i ruscelli, i laghi, i sentieri, le rocce e i crinali.
È stato con la fotografia che ho riscoperto il paesaggio inteso come forma visibile del nostro pensare lo spazio, riconnettendomi alle radici mie e di questa terra per ricompormi.
Fotografarmi nella natura è stato rigenerante, una scoperta, una terapia che mi ha fatto affermare: ‘Io esisto, ci sono. Ora posso e possono vedermi’. Sono lì, nascosta tra i batuffoli indaco dei cespugli di ortensie, accucciata nelle crepe di un castagno, protesa su una roccia d’arenaria o abbracciata dalle foglie spinose di un albero. Posso essere faggio nel bosco, pietra a terra, posso immaginare stanze nella vegetazione incolta, sopravvivere a un naufragio, somigliare a una montagna. Posso trasfigurarmi. E, con la fotografia, posso essere tutto, soprattutto me stessa.
